Le preoccupazioni delle persone oggi sono parecchie e molto radicate. L’83% dei lavoratori teme di perdere il proprio posto a causa dell’automazione, della recessione imminente, della mancanza di formazione e della concorrenza al ribasso proveniente dall’estero.
Il 67% degli italiani, sopra media, invece teme di perdere il rispetto e la dignità un tempo assicurati nel proprio paese.
Due persone su tre non riescono a stare al passo dello sviluppo della tecnologia e per il 76% le notizie false sono una vera e propria arma di destabilizzazione.
La fiducia che un tempo era alla base delle nostre vite, sia sotto forma di speranza in un domani migliore, sia sotto forma di adesione all’idea politica o alla visione di un leader, sia nel credere ad un avanzamento della carriera lavorativa, oggi sono davvero messe in discussione. E lo sarebbero indipendentemente dalla crescita economica del nostro sistema.
È un panorama desolante quello che emerge dalla ricerca Edelman (scarica l’estratto qui) a proposito della fiducia, il cui livello - è il dato più rilevante - è oramai disgiunto dalla crescita dell’economia.
I brand, tuttavia, appaiono come l’istituzione più degna di fiducia e che meglio sta gestendo il suo ruolo nel panorama mondiale.
“Le aziende sono saltate nel vuoto lasciato dal populismo e dai governi - aggiunge Edelman - Il ‘business as usual’, che si focalizza esclusivamente sui ritorni degli azionisti, non è più possibile. Con il 73% dei lavoratori che vuole essere parte del cambiamento della società e due terzi dei consumatori che si fanno guidare dalle proprie credenze e valori negli acquisti, i ceo hanno capito che il loro mandato è cambiato”.
La sola competenza nel realizzare quanto promettono non è più sufficiente, tutto ciò deve essere fatto in modo etico. Insomma, non conta più solo che cosa fai, ma come lo fai.
Da uomo di comunicazione non posso fare a meno di rilevare i risultati di questa ricerca e di proporre delle considerazioni che possano essere spunto di riflessione per chi guida le nostre aziende.
Prendo come riferimento due concetti espressi nella ricerca:
1) Due terzi dei consumatori si fanno guidare dalle proprie credenze e valori negli acquisti.
La fiducia è qualcosa che va conquistata, se cambia il modo di concepire e misurare la fiducia verso le aziende o verso i prodotti, e se il modo per ispirare fiducia è il proprio comportamento, che rappresenta il nostro modo di comunicare, allora deve cambiare il modo in cui le aziende comunicano.
Dove per modo non mi riferisco tanto gli strumenti da utilizzare, ma più ai significati. L’oggetto della comunicazione non è tanto il cosa fai (il prodotto), ma il come lo fai, seguendo quali valori, quali principi e da quale proposito o causa sei ispirato nel farlo.
Se i consumatori scelgono in base a credenze e valori allora mi pare logico parlare di credenze e valori. Questo non tanto per avere un’arma in più, non credo servirebbe quando sono in campo elementi così profondi, ma per cercare di compiere un salto di maturazione, quello che ci richiede una civiltà probabilmente satura e che forse vuole un passaggio a qualcosa di più profondo e duraturo.
2) La sola competenza nel realizzare quanto promettono non è più sufficiente, tutto ciò deve essere fatto in modo etico.
La perfezione, l’efficienza tecnologica, il design e tutti quei parametri da sempre importanti per connotare un prodotto come eccellente (e che rimangono fondamentali) non bastano più. È come se guardando un’auto ritenessimo sufficiente la presenza di 4 ruote, un motore e una carrozzeria. Anche se sono l’essenziale non bastano più.
Perché non bastano più?
Io credo - paradossalmente - per via del troppo rumore, della troppa conoscenza, della dispersione dei legami sociali. Tutto ciò che conduce ad una lenta dissolvenza del nostro stesso esistere come collettività e come individui.
E per contrastare questo, per dare risposta alla sete di cose vere, di sentimenti che riportino la condizione umana al centro del vivere, la gente desidera qualcosa che pensava di aver smarrito, che però un “tempo” c’era. E a rappresentare quel tempo c’è l’etica, con tutto ciò che di enormemente fondante comporta.
Quindi ad un’azienda, in quanto istituzione meritoria di fiducia, tocca la responsabilità di contribuire a migliorare quel mondo da cui trae le possibilità di crescita e profitto attraverso il proprio contributo e impegno sociale.
Il lato positivo, la fortuna, in tutto questo, è la possibilità di ricominciare, di tornare a comunicare in un modo più profondo e più vero.
Per farlo occorre partire dal brand, dalla marca, che è il primo veicolo dell’identità aziendale. La quale può esprime la propria essenza e il desiderio di rapporto comunicativo, così come i tratti somatici e caratteriali dell’individuo ne rappresentano la personalità.
Dal mio punto di vista le aziende possono focalizzarsi su questi tre punti per costruire la fiducia nel pubblico:
- Puntare su una cultura etica, fondata su principi e valori che ispirino le persone.
- Comunicare la propria personalità (brand identity) in modo da confermare l’adesione a tali principi.
- Comunicare la propria visione del futuro e, insieme, quale giusta causa abbraccia per realizzarlo.
Anche se apparentemente semplice questo processo richiede un passaggio - soprattutto della classe vecchio stile ‘lavora, produci e zitto’ - una rinascita, che inevitabilmente comporta la rinuncia dell’ego (aziendale, manageriale, della proprietà…).
Infine, il processo comunicativo deve essere vero, non può essere solo una mera azione di facciata. È una questione di responsabilità e ignorarlo sarebbe pericoloso, fidati!